GESU' NELLA STORIA

sabato 24 luglio 2010

Quando sono stati scritti i Vangeli?


Quando sono stati scritti i Vangeli?


Una domanda che di tanto in tanto viene posta dalla gente è: "Se il Nuovo Testamento è stato scritto così tanto tempo dopo la morte di Cristo, come potete avere tanta fiducia nella narrazione della Sua vita?"


Nel datare i vangeli, la tendenza di diversi critici è di collocarli dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (anno 70 dopo Cristo). Spesso si sente affermare che il Nuovo Testamento non è altro che l'espressione dei credi delle prime chiese 50-80 anni dopo la morte di Gesù. Se così fosse, dovremmo constatare l'influenza del pensiero ellenistico sul messaggio del Nuovo Testamento. In realtà, le prove storiche indicano che i libri neotestamentari furono scritti poco tempo dopo la morte di Cristo.

Ad esempio, il libro degli Atti, in cui è registrata l'attività missionaria della chiesa primitiva, fu redatto da Luca, scrittore dell'omonimo vangelo. Il libro degli Atti termina con l'apostolo Paolo ancora vivente, a Roma.
Questo libro può allora essere stato scritto prima della morte di Paolo, dal momento che gli altri maggiori eventi della sua vita vi sono narrati. Alcune prove indicano che Paolo fu messo a morte durante la persecuzione voluta da Nerone nel 64 d.C., pertanto è probabile che il libro degli Atti sia stato scritto prima di quell'anno.

Il vangelo di Luca, essendo stato scritto prima del libro degli Atti, dallo stesso scrittore, dev'essere dunque stato composto tra la fine del 50 e l'inizio del 60 d.C.. La morte di Cristo ebbe luogo intorno all'anno 30 d.C., il che porta la data di composizione del vangelo di Luca al massimo entro 30 anni da quegli eventi.

La chiesa primitiva generalmente insegnava che i primi vangeli ad essere stati redatti erano quelli di Marco e di Matteo, il che ci porta ancora più vicini al tempo di Cristo. Questo ci induce a ritenere che i primi tre vangeli furono tutti composti nell'arco di 20-30 anni dal tempo in cui ebbero luogo questi eventi, un periodo in cui gli oppositori dell'epoca erano in vita e potevano facilmente contraddire la loro testimonianza se non fosse stata accurata.

Recentemente, lo studioso J. Robinson (un noto teologo liberale) ha evidenziato - in uno studio di 380 pagine e 1300 note conclusive - che la datazione dei libri del Nuovo Testamento risale a molto prima di quanto diversi studiosi odierni pensano. Robinson ha dimostrato che l'intero Nuovo Testamento può essere stato completato prima dell'anno 70 d.C., dunque nel pieno del periodo in cui vivevano gli scrittori dei vangeli. Le prove indicano che i documenti furono scritti a brevissima distanza dagli eventi. Recentemente, un altro studioso, J. W. Wenham, ha pubblicato uno studio dettagliato in cui giunge alle stesse conclusioni di Robinson.

Robinson sottolinea che nel Nuovo Testamento non vi è alcun riferimento alle persecuzioni di Nerone nel 64 d.C., né all'uccisione di Giacomo, il fratello di Gesù, nel 62 d.C.; non viene neanche menzionata la rivolta dei Giudei contro i Romani, iniziata nel 66 d.C., né quell'evento catastrofico che fu la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C..
Con tutta probabilità il Nuovo Testamento è stato completato prima del 70 d.C., forse anche prima del 64 d.C.. Si consideri infatti che la caduta del Tempio di Gerusalemme avrebbe alimentato la predicazione cristiana del messaggio che Gesù sostituiva il sistema sacrificale del Tempio (cfr. Giovanni 1:29, Ebrei 10:11 e segg.), e quindi il Nuovo Testamento avrebbe sicuramente fatto riferimento alla sua distruzione come avvenimento passato, se si fosse già verificata al tempo della stesura.

Dall'esame della coerenza interna, inoltre, lo studioso Tresmontant, fa notare come, ad esempio, in Giovanni 5:2 si legge che "a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, c'è [non "c'era", verbo estin in greco] una vasca, chiamata in ebraico Betesda, che ha cinque portici". Non avrebbe avuto senso dire questo se il libro fosse stato redatto dopo la distruzione di Gerusalemme, in quanto essa fu ridotta a un cumulo di pietre come Gesù aveva profetizzato decenni prima (cfr. Marco 13:1-2).

Nello studio di Robinson, 60 pagine e qualche centinaio di note sono dedicate alle prove della datazione dei seguenti libri del Nuovo Testamento:

1 Tessalonicesi: anno 45-50 d.C.
2 Tessalonicesi: anno 50-51
1 Corinzi: anno 55
1 Timoteo: anno 55
2 Corinzi: anno 56
Galati: anno 56
Romani: anno 57
Tito: anno 57
Filippesi: anno 58
Colossesi: anno 58
Efesini: anno 58
2 Timoteo: anno 58

Giacomo: 47-48 circa
Giuda: 61-62 circa
Pietro: 61-62 circa
Atti: 57-62 circa
2,3 e 1 Giovanni: periodo 60-65 circa
1 Pietro: anno 65

Marco: tra il 45-60
Matteo: tra il 40-60+
Luca: entro il 57-60+
Giovanni: probab. periodo 40-65+


Tra gli altri studiosi, anche Carsten P. Theide identifica e data i frammenti del Vangelo di Marco (7Q5) intorno all'anno 50 d.C., e stabilisce per gli altri libri una datazione molto simile a quella risultata dagli studi di Robinson.
Alle stesse conclusioni sono giunti anche C. Tresmontant, basandosi sull'analisi del linguaggio e sulle prove archeologiche, e successivamente J. Carmignac, filologo e famoso studioso di testi ebraici e dei rotoli del Mar Morto.

Orchard e Riley datano Matteo al 43 d.C., mentre Gunther Zuntz, un'autorità internazionale sul mondo ellenico, data Marco a non più tardi del 40 d.C. (dunque prima ancora di quanto sostenuto da Robinson).
K.L. Gentry, D. Chilton, e lo stesso Robinson, concludono inoltre che anche l'ultimo dei libri neotestamentari, il libro dell'Apocalisse, sia stato completato prima dell'anno 70 d.C..

La dott.ssa Eta Linnemann, che era stata in passata una critica negativa del Nuovo Testamento sulla scia di Rudolf Bultmann e Ernst Fuchs, ha rinnegato quelle convinzioni e ora esorta i propri lettori a "cestinare" le sue opere precedenti; ha scritto diversi saggi che demoliscono le posizioni dei moderni critici. Ella scrive:


"I testimoni oculari (tanto quelli ostili quanto quelli favorevoli) non scomparvero dalla scena in un lampo dopo due decenni. Molti verosimilmente sono sopravvissuti fino alla seconda metà degli anni 70 d.C... Chi in quel periodo avrebbe osato manomettere la 'tradizione primitiva' tanto da renderla irriconoscibile?"

Facciamo notare, infine, che molti critici dimenticano che i vangeli non potevano non venire scritti immediatamente dai primi Cristiani. Le prime comunità cristiane, infatti, provenendo dalla "Religione del Libro" (il Giudaismo), non potevano ignorare la necessità di scrivere accuratamente la storia di Gesù per confermarla da un punto di vista autorevole (quello apostolico), per far conoscere il messaggio ad essi affidato da Cristo, e per proteggerlo da false rappresentazioni ad opera di eretici, che esistevano anche al tempo apostolico.

Non vi è alcun motivo di credere che solo successivamente qualche discepolo degli apostoli abbia raccolto gli scritti apostolici e prodotto il Nuovo Testamento.
Gli apostoli Giovanni e Paolo incoraggiavano i Cristiani a leggere e a diffondere i loro scritti che già circolavano tra le chiese. L'apostolo Pietro scrisse: "So che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come il Signore nostro Gesù Cristo mi ha fatto sapere. Ma mi impegnerò affinché dopo la mia partenza abbiate sempre modo di ricordarvi di queste cose. Infatti vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole abilmente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua maestà" (2 Pietro 1:14-16).
Più avanti nella stessa epistola, egli convalida l'opera di Paolo e ne conferma l'uso come Scrittura canonica da parte della chiesa cristiana: "...come anche il nostro caro fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; e questo egli fa in tutte le sue lettere, in cui tratta di questi argomenti. In esse ci sono alcune cose difficili a capirsi, che gli uomini ignoranti e instabili travisano a loro perdizione come anche le altre Scritture" (2 Pietro 3:15,16).

Possiamo pertanto concludere che anche dal punto di vista storico la descrizione di Gesù Cristo offerta dai testimoni oculari che hanno scritto i vangeli è affidabile. E noi cristiani abbiamo constatato la verità delle parole del Nuovo Testamento e riconosciamo con l'apostolo che "queste cose sono state scritte affinché crediate che Gesù è il Cristo il Figlio di Dio e affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome" (Giovanni 20:31).



Si vedano anche:

Le profezie della Bibbia su Cristo
Affidabilità storica e importanza della Bibbia
La Sacra Bibbia su questo sito

http://camcris.altervista.org/datavang.html

AUTENTICITA' DEI VANGELI


AutenticitA' dei Vangeli


" (...) se l'originale dei vangeli è davvero ebraico o aramaico è perché sono stati scritti subito, tra il 30 (anno probabile della morte di Gesù) e il 50, o poco più. In ogni caso, ricolto prima che, con la distruzione del 70, il vecchio Israele sia travolto e scompaiano gli intinti testimoni di ciò che è raccontato in quei testi".

( VITTORIO MESSORI, Patì sotto Ponzio Pilato?, SEI, Tosino 1992, p. 297)



1. La nostra indagine sulla credibilità del Cristianesimo ha affrontato, nel capitolo precedente, il problema della esistenza di Gesù Cristo e abbiamo visto, grazie alla documentazione in nostro possesso, che si tratta di un dato storicamente accertato.

2. Ora, tra i documenti che abbiamo preso in considerazione non abbiamo incluso i quattro Vangeli. E ciò non perché essi non siano da considerarsi storici, ma soltanto perché non abbiamo ancora esaminato il loro spessore di testimonianze affidabili, di documentazione attendibile. È ciò che cominceremo a fare ora.

3. Il cattolico sa che: "La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e costanza massima che i quattro Vangeli, di cui afferma senza alcuna esistnza la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza" (Dei Verbum, 19). Sulla scorta di que­sta definizione, tratta da una Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II, il cattolico non nutre alcun dubbio che i Vangeli siano docu­menti storici autentici e veritieri.

4. Poiché quanto insegnato dalla Dei Verbum ha valore normativo solo per i cattolici, per accertare l'attendibilità storica dei Vangeli, e convincere di ciò chi la contesta, il cattolico deve percorrere altre strade, quelle tracciate dalla ricerca storica.

5. Molto semplificando, possiamo dire che la disciplina storica, quando incontra un documento scritto che riporta fatti accaduti in pas­sato, solitamente percorre queste strade:

- in primo luogo, ne accerta l'autenticità;

- poi verifica l'integrità del contenuto;

- quindi esamina quanto è scritto per accertare se corrisponde a fatti real­mente accaduti.

6. Ora, per mostrare a chi non crede che i Vangeli sono documenti storici, che riportano con fedeltà fatti realmente accaduti, il cattolico percorre la stessa strada indicata dallo storico.

7. Che cosa significa indagare sull'autenticità dei Vangeli? Vuol dire appurare in primo luogo che essi risalgano effettivamente all'età apostolica, ossia al I secolo, e poi che siano stati scritti realmente dagli autori cui sono attribuiti.

8. Che cosa significa indagare sull'integrità dei Vangeli? Vuol dire accertarsi che i Vangeli oggi in nostro possesso, quelli che abitualmente leggiamo, corrispondano nel contenuto esattamente a quelli che hanno redatto Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Sarà necessario, dunque, sgomberare il campo da ogni possibile sospetto di manomissione, di mutilazione e di correzione del testo evangelico originale.

9. Che cosa significa indagare sulla veridicità dei Vangeli? Vuol dire:

- in primo luogo, controllare che i Vangeli siano stati scritti in epoca vicina ai fatti che narrano (e qui riprenderemo il discorso sull'autenticità dei Vangeli).

- poi, recuperare informazioni sui loro autori, perché interessa sapere se sono persone meritevoli di fiducia, competenti in materia e testimoni attendibili dei fatti che raccontano.

- infine, e questa è forse la parte più importante, accertare che i fatti nar­rati siano realmente accaduti.

10. Il cattolico sa che il problema relativo alla datazione dei Van­geli è molto importante. Vi sono certe correnti di pensiero, sostenute anche da qualche teologo e da qualche biblista, stando alle quali tra il Cristo della storia, cioè quello che è realmente vissuto, e la composizione dei Vangeli sarebbero intercorsi lunghi periodi di tempo, da 30 fino a 70 anni.

11. Quanti negano pieno valore di documentazione storica ai Van­geli ritengono che in questo lungo arco di tempo la Chiesa primitiva, mentre era in fase di organizzazione e con lo scopo di guadagnare nuovi fedeli, avrebbe divinizzato la persona di Gesù, attribuendogli parole ed opere che in realtà Egli non avrebbe mai pronunciato o compiuto.

12. Una vera e propria manipolazione, una autentica falsificazione della verità, quella compiuta dalla Chiesa primitiva nel redigere i Vangeli. Per rimediare, teologi, biblisti e studiosi, a partire da quelli di confes­sione protestantica, hanno dato il via ad un processo cosiddetto di "demitizzazione", con l'intento di eliminare dal testo dei Vangeli, e quindi dalla vita di Gesù Cristo, ogni parola e ogni episodio che non sarebbe razionalmente comprensibile.

13. Riguardo la scelta tra le parole e i fatti da conservare e quelli da eliminare nel testo evangelico, ogni studioso ha personali opinioni. Per alcuni, espressioni come "Io e il Padre siamo una cosa sola" sono puramente inventate. Impossibile che un uomo, un giudeo, abbia mai pronunciato queste parole che lo fanno uguale a Dio. Ma è anche impossibile che abbia camminato sulle acque, sfamato migliaia di persone con pochi pani e pesci, guarito all'istante ciechi, sordi e storpi, risuscitato il figlio della vedova di Nain, comandato alle forze della natura e che, dopo la morte, sia anche risuscitato. Tutto questo ripugna, secondo alcuni "studiosi", alla ragione umana. Nei Vangeli vi sarebbe stato aggiunto da mani ignote e interessate a tutto tranne che a trasmettere fedelmente la vita di Gesù Cristo.

14. Che cosa rimanga della vita di Gesù che meriti qualche inte­resse, dopo averla depredata di quanto abbiamo sopra ricordato, non è dato di capirlo bene. Per quanto ci riguarda, solo se le nostre tre piste di ricerca - autenticità, integrità, veridicità dei Vangeli - dovessero condurci a risultati positivi, solo in questo caso noi saremo autorizzati a trattare i Vangeli come documenti storici atendibili, credibili, meritevoli della nostra considerazione.

15. E se i Vangeli sono documenti storici attendibili, il cattolico li proporrà con schiettezza e semplicità a chi non crede, perché si renda conto dell'irragionevolezza delle sue convinzioni e si disponga, con l'aiuto della grazia di Dio, a convertirsi.



I Vangeli sono documenti del primo secolo

16. Una tradizione bimillenaria, giunta ininterrottamente fino a noi, attribuisce i Vangeli a quattro autori di nome Matteo, Marco, Luca e Giovanni, tutti vissuti - si dice - nel I secolo d.C. Come possiamo verificare la fondatezza di questa tradizione?

17. Il punto di partenza della nostra ricerca è un dato storico indiscutibile, perché di esso possediamo molte testimonianze. Subito dopo la morte di Gesù, il Cristianesimo si diffonde in numerose e vaste regioni dell'Impero di Roma. Proprio di questa capillare presenza rimangono molte tracce, anche archeologiche, che perfino un turista distratto può facilmente notare solo che viaggi in Terra Santa o in Asia Minore.

18. A Cipro, a Tessalonica, ad Atene, a Efeso, a Corinto (Grecia), in certe zone dell'Asia Minore (Panfilia, Pisidia, Galazia, Iconio e Colossi), Paolo fonda comunità cristiane che presto diventano fiorenti e si dotano, fin dal I secolo, di una certa struttura gerarchica e di una organizzazione.

19. A Gerusalemme, a Cesarea, ad Antiochia, a Joppe (Giaffa) e in Samaria, Pietro fonda altre comunità cristiane. Anche a Rorna, probabilmente fu Pietro il fondatore della locale comunità cristiana.

20. Altri Apostoli fondano comunità in Egitto, nella Cappadocia, in Armenia e in zone dell'Asia Minore (Porto, Frigia, Bitinia).

21. Una presenza così numerosa di focolai di Cristianesimo è attestata da fonti storiche non cristiane. Abbiamo ricordato, nel capitolo pre­cedente, la lettera di Plinio il Giovane (anno 112) all'imperatore Traiano, nella quale si legge: "Il Cristianesimo è professato da un gran numero d'ambo i sessi, di ogni età e classe sociale" e nella quale si dice che questa nuova Religione è ormai diffusa non solo nelle città ma anche nei villaggi e nelle campagne.

22. Queste comunità cristiane sono tra loro assai distanti e soprattutto sono spesso indipendenti una dall'altra. Tra alcune di esse non mancheranno scontri e rivalità che sfoceranno, talvolta, in dure lotte di carattere dottrinale, fino a giungere successivamente a dolorose separa­zioni.

23. Ma su di un punto esse concordano sempre: nel ritenere gli scritti di Matteo, di Marco, di Luca e di Giovanni i soli autentici Vangeli, realmente scritti dai quattro personaggi suddetti, tutti vissuti nel I secolo d.C.

24. Questo è un primo dato che gioca a favore dell'autenticità dei Vangeli, da prendere in seria considerazione. Ma ve ne sono altri.

25. Tra il 95 ed il 150 d.C. visse Papia, che fu anche vescovo di Gerapoli, in Asia Minore. Papia fu discepolo di un altro grande della Chiesa, san Policarpo, vescovo di Smirne. E san Policarpo fu amico e discepolo di san Giovanni Apostolo, l'autore del quarto Vangelo.

26. Nelle sue "Spiegazioni dei detti del Signore", di cui ci parla lo storico Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica, III, 39), Papia scrive: "Questo diceva il Presbitero: Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse con accuratezza, ma non con ordine, tutto ciò che ricordava delle parole o dei fatti del Signore. Egli, infatti, non aveva udito il Signore né era stato suo discepolo, ma più tardi, come dicevo, aveva accompagnato Pietro, il quale impartiva le sue istruzioni secondo i bisogni, ma senza fare esposizione ordi­nata dei detti del Signore, cosicché non commise colpa Marco scrivendo alcune cose così come le ricordava. Egli ebbe una sola preoccupazione, di non omettere nulla di quanto aveva inteso e di non introdurre alcun errore...

Quanto a Matteo, egli in lingua ebraica ordinò i detti del Signore e cia­scuno l'interpretò come era capace di fare".

27. Nella testimonianza di Papia si fa cenno ad un "Presbitero". A detta degli studiosi si tratta proprio di san Giovanni apostolo, le cui parole furono riferite a Papia probabilmente proprio da quel Policarpo discepolo dell'autore del quarto Vangelo.

28. Siamo davanti ad una testimonianza preziosa, la cui fonte potrebbe risalire, con la mediazione di san Policarpo, nientemeno che ad Lui Apostolo del Signore, autore di un Vangelo. Papia parla solo di un Vangelo di Matteo e di uno di Marco; tace sugli altri due e così facciamo, - per ora, anche noi. Segnala che Marco era "interprete di Pietro" e "aveva accompagnato" il Principe degli Apostoli. Pertanto, Marco è certamente vissuto in età apostolica e il suo Vangelo va datato al I secolo.

29. La documentazione storica ci offre altre testimonianze impor­tanti a conferma dell'autenticità dei Vangeli.

30. Nell'anno 185, Ireneo, vescovo di Lione (Gallia), scrive: "Matteo fra gli Ebrei nella propria lingua di essi produsse un Vangelo, nel tempo in cui Pietro e Paolo predicarono a Roma e vi fondarono la Chiesa. Quindi, dopo la dipartita di costoro, Marco, discepolo e segretario di Pietro, ci trasmise anch'egli per iscritto le cose predicate da Pietro. A sua volta, Luca, compagno di Paolo, compose in un libro il Vangelo predicato da quello. Infine, Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò pure sul petto di Lui, anch'egli pubblicò un Vangelo, mentre dimorava in Efeso d'A­sia... Esistono dunque solo quattro Vangeli né più né meno. Come quattro sono le parti del mondo e quattro i venti principali (...) È manifesto quindi che il Verbo ci ha dato il Vangelo quadriforme, permeato da un solo spirito" (Adversus Haereses, III, 1, 1).

31. Dunque, al tempo di Ireneo, sul finire del II secolo, è assodato che gli unici Vangeli ai quali la Chiesa attribuisce valore sono quelli di Matteo, di Marco, di Luca e di Giovanni. Ireneo ci offre una datazione dei Vangeli ancora generica, ma molto significativa: Matteo scrive "nel tempo in cui Pietro e Paolo predicarono a Roma e vi fondarono la Chiesa", quindi prima del 64/67 d.C., anno della loro morte. Ci informa, inoltre, che Luca, autore del terzo Vangelo, era compagno di Paolo mentre Gio­vanni, autore del quarto, era apostolo di Gesìi. Dunque, tutti uomini vis­suti nel primo secolo, che scrissero i Vangeli certamente in età apostolica.

32. La testimonianza di Ireneo è preziosa sia per l'autorevolezza della fonte, perché egli fu uomo di profonda cultura e di grande presti­gio e autorità nella Chiesa primitiva, sia perché, sebbene giovanissimo, conobbe personalmente san Policarpo, discepolo dell'Apostolo Giovanni.

33. Un altro testimone che conferma l'autenticità dei Vangeli è Clemente Alessandrino (Atene 150 ca. - 212 ca.), di cui ci siamo già occupati quando abbiamo esaminato il pensiero cattolico riguardo l'esi­stenza di Dio. Uomo coltissimo, educato nel paganesimo, conosceva perfettamente i filosofi greci e il Nuovo ed Antico Testamento, citati nei suoi scritti per almeno 3.500 volte.

34. Ricordando le sue Ipotiposi, una raccolta in otto libri di appun­ti sulla Sacra Scrittura, Eusebio di Cesarea scrive: "In questi stessi libri Clemente espone, circa la serie dei Vangeli, la tradizione degli antichi presbiteri che è questa. Egli dice che sono stati scritti dapprima i Vangeli che contengono le genealogie del Salvatore (Matteo, Luca), e che quello secondo Marco ha avuto la seguente origine. Avendo Pietro predicato pubblicamente a Roma la Parola di Dio ed esposto il Vangelo in virtù dello Spirito San­to, i molti che erano stati presenti esortarono Marco come colui che l'aveva seguito da gran tempo e si ricordava delle cose dette, di mettere per iscritto le cose pronunciate. Avendo fatto ciò, Marco consegnò il Vangelo a quelli che l'avevano pregato. Pietro risaputo ciò non volle esplicitamente né impe­dire né incitare. Ultimo, pertanto, è Giovanni: vedendo che negli Evangeli precedenti erano state manifestate le cose corporee (ea quae ad corpus Christi pertinent), spinto dagli amici, divinamente portato dallo Spirito Santo, produsse un Vangelo spirituale" (Historia Ecclesiastica, VI, 14).

35. Come si può notare, anche Clemente Alessandrino attesta i nomi degli Evangelisti e l'epoca in cui furono scritti, certamente il I secolo, offrendoci un ulteriore dato storico in favore della loro autenti­cità.

36. Un altro testimone in favore dell'autenticità dei Vangeli è un discepolo di Clemente Alessandrino, suo successore, a partire dall'anno 203, nella Scuola di Alessandria. Stiamo parlando di Origene, autore di un Commentario in Matteo, in cui scrisse: "Ecco quanto appresi dalla tra­dizione intorno ai quattro Vangeli, che sono gli unici ammessi senza controversia dalla Chiesa di Dio. Dapprima fu composto il Vangelo secondo Mat­teo, il quale una volta era pubblicano e in seguito divenne Apostolo di Gesù Cristo. Egli pubblicò il Vangelo in lingua ebraica per i Giudei convertiti alla fede. Il secondo è quello composto da Marco dietro quantogli aveva espo­sto Pietro... Il terzo è quello secondo Luca, il Vangelo raccomandato da Paolo, scritto a favore dei Gentili. L'ultimo quello secondo Giovanni" (Euse­bio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, VI, 25).

37. Un'altra testimonianza è quella di Tertulliano, autore del Libro contro Marcione, scritto intorno al 200. Egli scrive: "Abbiamo stabilito prima di tutto che lo strumento evangelico ha per autori gli Apostoli ai quali il Sitgnore stesso diede l'incarico di promulgare il Vangelo. Quando ne furono autori dei discepoli, non rimasero però isolati, bensì in comunione con gli Apostoli; poiché la predicazione dei discepoli potrebbe essere sospettata di una gloria, se non fosse garantita dall'autorità dei maestri, anzi dall'auto­rità di Cristo che conferì il magistero agli Apostoli. Così, tra gli Apostoli, Gioranni e Matteo ci hanno comunicato la fede; tra i loro discepoli, Luca e Marco la rinnorano" (Adversus Marcionem, IV 2).

38. Fino ad ora abbiamo esaminato una serie di testimonianze molto antiche, tutte concordi sull'autenticità dei quattro Vangeli. Dobbiamo ricordare che queste testimonianze provengono da uomini autorevoli, prestigiosi, di grande cultura anche se diversi tra loro per sensibilità e formazione. Tutti però attestano che la Chiesa primitiva riteneva ispirati, dunque canonici, solo i Vangeli di Matteo, di Marco, di Luca e di Giovanni, che furono scritti nel I secolo.

39. A questa serie di documenti ne possiamo aggiungere un altro di incomparabile valore. Si tratta del celebre Canone Muratoriano, un rammento datato verso la metà del II secolo d.C., scoperto dallo storico Ludovico Antonio Muratori (1672 - 1750) nella Biblioteca Ambrosiana di Milano e reso pubblico nell'anno 1742.

40. È un frammento incompleto. Contiene il catalogo dei Libri del Nuovo Testamento, ma è privo dell'inizio e della fine. Pur così mutilato, esso esordisce affermando"... il terzo Vangelo è di Luca, medico, compa­gno di Paolo,... il quarto è di Giovanni, uno dei discepoli".

41. In realtà, prima dell'esordio sopra ricordato, vi sono alcune parole che concludono una frase precedente, della quale non si ha l'inizio, andato perso. Gli studiosi concordano che si riferisca al Vangelo di Marco. Ma a noi importa notare come il Codice Muratoriano enumera i Vangeli di Luca e di Giovanni, definendoli rispettivamente "il terzo" e "il quarto".

42. Non è proprio difficile credere, anche sulla base delle altre testimonianze che abbiamo ricordato, che i primi due Vangeli, dei quali certamente il Codice Muratoriano riferiva, dovevano essere quelli di Matteo e di Marco.

43. A questo punto della nostra ricerca si impone una conclusione. Tutti i dati storici che abbiamo riferito concordano nel ritenere i Vangeli scritti nel primo secolo e proprio dai noti quattro Evangelisti. Dunque, la loro autenticità è pienamente confermata. Nello stesso secolo in cui Cri­sto era vissuto, dopo la sua morte e risurrezione, vi sono testimoni che hanno messo per iscritto ciò che avevano visto o udito. Il dato è di straordinaria importanza.

44. Quelle che abbiamo ricordato fino ad ora sono prove che gli studiosi definiscono "esterne" ai Vangeli. Vi sono anche prove "interne", cioè prove che possiamo ricavare da un attento esame del testo evange­lico. Qui ne proponiamo soltanto due.

45. La prima. Se si pone attenzione alla Chiesa così come è descritta nei Vangeli, essa ci appare certamente dotata di un "Capo" ("Tu sei Pietro") e di una primitiva scala gerarchica, occupata dagli Apostoli. Ma nei Vangeli non vi è alcun cenno di quella struttura gerarchica più complessa, che nasce subito ma che ci è ricordata da altri scritti del Nuovo Testamento, composta di Vescovi, presbiteri e dia­coni.

46. Questa mancanza si spiega solo se si ammette che i Vangeli sono stati scritti prima che la Chiesa si strutturasse completamente, quindi in un tempo estremamente vicino alla morte del Signore, avve­nuta nel 30 d.C.

47. La seconda. Stando ai Vangeli, gli unici avversari che incontra Gcsù Cristo sono Farisei, Sadducel e Scribi. Manca qualsiasi riferimento ai primi terribili avversari del Cristianesimo primitivo: Gnostici, Doceti, Montanisti, etc. Neppure si trova nei Vangeli alcun riferimento alle per­secuzioni scatenate periodicamente dalle autorità dell'Impero di Roma che ebbero, però, una notevole ripercussione sulla vita delle prime comunità cristiane.

48. Questo silenzio su eventi che sconvolsero la vita della Chiesa primitiva si spiega solo ammettendo che i Vangeli sono stati scritti quando le eresie e le persecuzioni sopra ricordate non erano ancora avvenute, quindi proprio a ridosso della vita terrena di Gesù di Nazareth.

49. La nostra ricerca sull'autenticità dei Vangeli andrebbe completata esaminando più a fondo la data della loro composizione. Fino ad ora, abbiamo visto che furono scritti nel I secolo, ma possiamo essere più precisi.

50. Affronteremo questo tema nel capitolo dedicato alla "veridi­cità" dei Vangeli. Prima, dobbiamo accertare se questi documenti sono giunti fino a noi integralmente, senza alterazioni. È ciò che faremo nelle pagine che seguono immediatamente.



" Gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte tramandate a voce o già per iscritto, redigendo una sintesi delle altre o spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere".

( Dei Verbum, 19)


http://apologetica.altervista.org/libri_perche_credere11.htm

L’attendibilità (la “solidità”) dei Vangeli


L’attendibilità (la “solidità”) dei Vangeli



Luca l’autore del terzo vangelo premette alla sua opera in due vo­lumi un “proemio” come fanno gli scrittori classici di storiografia e geografia. Egli lo riprende, in forma più breve, all’inizio del secondo volume – chiamato dal II secolo «Atti degli apostoli» – riassumendo il contenuto del vangelo: «Nel primo racconto, o Teofilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo...».[1] Nel proemio egli s’impegna a fare un resoconto ordinato e comple­to degli avvenimenti che riguardano la vicenda di Gesù e della Chiesa protocristiana, sulla base della tradizione orale che parte dai “te­sti oculari”. Lo scopo è di dare a Teofilo (= amico di Dio), rappresentante dei de­stinatari della sua opera, una documentazione “attendibile” delle cose di cui ha sentito parlare. La “solidità” – avsfa,leia – di cui si parla alla fine del proemio, può essere intesa in senso “teologico” – le promesse di Dio a Israele e le parole di Gesù ai discepoli si sono realmente compiute – ma anche nella sua valenza storio­grafica.

L’autore del vangelo si preoccupa di collocare la vicenda di Gesù dentro le coordinate spazio-temporali di un racconto sto­ricamente attendibile. In altri termini, la figura e l’opera di Gesù non sono un prodotto di fantasia o di fanatismo religioso, ma si radicano nella storia. Nel suo ultimo discorso davanti ad Erode Agrippa II e al governatore romano Porcio Festo, a Cesarea Ma­rittima, prima di essere trasferito a Roma per il processo, Paolo dice, interpellando Agrippa: «Il re è al corrente di queste cose e davanti a lui parlo con franchezza. Penso infatti che niente di questo gli sia sconosciuto, perché non sono fatti accaduti in se­greto».[2]

Luca racconta la vicenda di Gesù secondo i modelli storiogra­fici del suo tempo, utilizzando le fonti disponibili – la tradizione e le prime narrazioni scritte – dentro un quadro interpretativo desunto dalla sua fede in Gesù Cristo, il Signore e il Figlio di Dio. Sulla base dello schema del proemio lucano, nell’epoca moderna si ricostruisce la storia della formazione dei vangeli per verificar­ne l’attendibilità. Tra il Gesù vissuto nella Palestina degli anni trenta e i vangeli scritti passano circa quarant’anni. Nel percorso che va da Gesù ai vangeli vi sono due momenti decisivi. Il pri­mo è il passaggio dall’attività e dall’insegnamento di Gesù alla testimonianza e predicazione su Gesù da parte dei discepoli; il secondo è il passaggio dalla tradizione orale alla stesura scritta dei singoli vangeli da parte dei redattori. A ognuna di queste svolte si ripropone l’interrogativo: Qual è lo scopo dell’annuncio o della predicazione su Gesù? Qual è lo scopo dei redattori finali dei vangeli? Informare sulla vicenda storica di Gesù o suscitare e sostenere la fede in lui, il Cristo vivente?

Attualmente c’è un sostanziale accordo nel ritenere che lo scopo dei vangeli scritti e della tradizione precedente è di an­nunciare Gesù come Cristo e Signore. I vangeli sono documenti di fede in Gesù Cristo risorto. Con questo non s’esclude l’inte­resse degli autori dei vangeli per la realtà storica di Gesù, per ciò che egli ha fatto e detto, per le vicende della sua morte. Questo interesse è subordinato allo scopo primario di cogliere e sottoli­neare il significato delle sue parole e dei suoi gesti. I vangeli non sono un riassunto del messaggio di Gesù e neppure una cronaca della sua attività, ma documenti d’una tradizione viva e fedele, scritti da autori cristiani impegnati.

I vangeli attestano la fede in Gesù Cristo. Si tratta però della fede in una persona che è vissuta, ha parlato e agito concreta­mente in uno spazio e in un tempo preciso. In altri termini, la fede dei discepoli e delle prime comunità cristiane in Gesù Cri­sto, il Signore risorto, è inseparabile dalla loro esperienza storica della vita e morte di Gesù di Nazareth. Lo stesso metodo che per­mette di ricostruire le tappe della formazione dei vangeli offre gli strumenti per verificare l’attendibilità storica del materiale in essi confluito.

Il metodo della cosiddetta «storia delle forme», utilizzato per ricostruire i motivi e le esigenze dell’ambiente che ha conserva­to e trasmesso le piccole unità letterarie dei vangeli – racconti di miracolo, controversie, parabole, ecc. – può essere applicato an­che al periodo precedente la Pasqua per ricostruire la situazione vitale della comunità dei discepoli raccolti attorno a Gesù. Pri­ma della morte e risurrezione di Gesù vi è la tendenza a conser­vare e trasmettere ciò che Gesù insegna e quello che egli compie nei villaggi della Galilea e a Gerusalemme. Nei vangeli attuali le sentenze di Gesù sono raccolte in una forma che ricorda la tec­nica d’insegnamento dei maestri ebrei del suo tempo.

Alcuni insegnamenti o sentenze risentono d’una situazione che si è avuta soltanto prima della Pasqua di risurrezione; co­sì alcune parole sulla fine tragica di Gesù sono troppo oscure ed allusive per essere state ricostruite dopo gli avvenimenti di Pa­squa; l’insegnamento centrale del Vangelo – l’annuncio del re­gno di Dio da parte di Gesù – si colloca in una situazione storica che non è più attuale dopo la sua risurrezione, quando il conte­nuto dell’annuncio riguarda Gesù Cristo risorto.

La tradizione delle parole di Gesù inizia nella cerchia dei di­scepoli raccolti attorno alla sua persona. Questa tradizione si prolunga in quella successiva alla Pasqua, sotto il controllo e la responsabilità delle stesse persone che sono vissute con Gesù, i “dodici” discepoli. La memoria di quello che Gesù ha detto e fat­to si conserva e trasmette in una comunità strutturata e per mez­zo d’incaricati sicuri in modo tale che la continuità e la fedeltà con la fonte originaria sono sufficientemente garantite.

Per verificare l’attendibilità storica del materiale raccolto nei vangeli si può ripercorrere la strada che va dai testi evangelici a Gesù di Nazareth, seguendo alcuni criteri. Il primo è quello delle testimonianze molteplici ed incrociate: una parola o un’azione di Gesù, riferita nei vangeli, è attendibile quando è attestata da più e diversi strati della tradizione. Il secondo criterio è quello della “discontinuità”, nel senso che una parola o un atteggiamento di Gesù è attendibile quando non può essere pensato come un prodotto né dell’ambiente giudaico contemporaneo né dell’am­biente cristiano successivo. Il terzo si chiama “criterio della con­tinuità”. Si considera attendibile una parola o azione di Gesù quando è in sintonia con il suo ambiente vitale (Sitz im leben), con la situazio­ne socio-culturale del suo tempo e soprattutto è conforme con l’originalità della sua persona e del suo messaggio. Negli ultimi decenni sono stati proposti altri criteri di carattere più sintetico. Tra questi si può ricordare quello detto dell’imbarazzo, nel sen­so che una sentenza o azione di Gesù, che crea problemi per la tradizione che ne conserva memoria, è storicamente “attendibi­le”. I vari metodi per verificare l’attendibilità storica dei Vangeli sono validi ed efficaci se sono usati in modo complementare e convergente.

Alla fine, però, si deve riconoscere che l’insegnamento e l’atti­vità di Gesù non si lasciano ridurre alle dimensioni di una realtà storica oggettiva. Con i suoi gesti e con le sue parole Gesù riven­dica un’autorità e identità che interpellano non solo lo storico, ma l’essere umano in quanto tale. Gesù si presenta come uno che decide del significato della vita di ogni essere umano. Alla domanda: «Voi chi dite che io sia?», non si risponde con una for­mula, ma con la decisione di condividere o meno il suo destino.



http://avemaria.myblog.it/archive/2010/01/18/l-attendibilita-dei-vangeli.html

sabato 23 maggio 2009

San Paolo, grandioso testimone della divinità di Cristo


CRISTIANESIMO/ San Paolo, grandioso testimone della divinità di Cristo
INT.
Rainer Riesner
martedì 12 maggio 2009


Rainer Riesner, su invito del Centro Culturale di Milano, ha tenuto mercoledì scorso un’affollata conferenza su san Paolo nell’Aula Magna dell’Università Cattolica. Ha tutte le competenze per parlare di questo argomento, essendo uno dei massimi studiosi protestanti del cristianesimo primitivo e docente di Nuovo Testamento a Dortmund.



Professor Riesner, san Paolo è un apostolo o un fondatore?



L’apostolo Paolo è assolutamente decisivo per l’evangelizzazione del mondo antico. Ma egli stesso avrebbe fortemente protestato se lo si fosse chiamato “fondatore” di qualcosa. La sua continuità con Gesù Cristo è un dato acclarato e indiscutibile. Gli si è applicata la categoria di “fondatore” per metterlo in contrasto con Gesù.



Come è avvenuto?



Tutto è iniziato nel diciannovesimo secolo. Si è voluto contrapporre l’etica semplice, amichevole di Gesù da un lato e, dall’altro, Paolo con la sua teologia, cristologia e soteriologia complicate. Gesù diventava così un mero maestro e profeta giudeo e Paolo sarebbe stato il responsabile di una successiva divinizzazione di Gesù, operata attraverso teorie tratte dal paganesimo. Il risultato di questa posizione è fin troppo chiaro: per riferirci autenticamente a Gesù, dobbiamo alleggerirci di tutta la dogmatica, che sarebbe un portato paolino.



Finendo così per negare la divinità di Gesù. Ma, dunque, il Paolo vero chi è?



Anzitutto è importante tener presente la sua origine ebraica. A Paolo sono familiari tutte le tradizioni e le categorie dell’Antico Testamento. A questo proposito è decisiva una questione biografica. Tutti gli studiosi sono concordi sulla provenienza di Paolo da Tarso. Per quanto riguarda la gioventù di Paolo vi sono però due posizioni. La prima – cui convintamente aderisco – afferma che Paolo proviene da una devota famiglia di farisei, che lo ha inviato fin da giovane a Gerusalemme per studiare l’Antico Testamento. L’altra posizione vuole dimostrare il condizionamento di Paolo da parte del pensiero pagano dicendo che egli ha vissuto a lungo in Tarso, centro dove le religioni pagane erano parecchio diffuse. Rimane comunque il fatto che l’indubbia adesione di Paolo all’ebraismo rende necessario spiegare come mai, immediatamente dopo la caduta sulla via di Damasco, un ebreo possa affermare la divinità di una persona umana.



Paolo infatti “incontra” Cristo sulla via di Damasco. Come l’esegesi spiega il fatto accaduto quel giorno? Di che tipo di incontro si tratta?



La domanda è interessantissima. Facciamo un passo indietro. Sappiamo che Paolo ha perseguitato la prima comunità di Gerusalemme. Le fonti sono concordi nel datare la caduta da cavallo a un anno e mezzo di distanza dall’Ascensione. Inoltre Paolo stesso – lo apprendiamo dagli Atti degli Apostoli – dice di avere studiato a Gerusalemme. Il lasso di tempo è strettissimo: Paolo a Gerusalemme, Gesù per l’ultima volta a Gerusalemme, l’incontro sulla via di Damasco. Io ritengo possibile che Paolo abbia conosciuto personalmente Gesù a Gerusalemme: non come discepolo, ma come abitante della città. E certamente era a conoscenza di cosa gli apostoli testimoniassero riguardo la Sua risurrezione; era proprio quello il motivo per cui li perseguitava! Dirò di più: per Paolo la prova schiacciante della falsità messianica di Gesù consisteva proprio nella morte in croce.



Poi dirà: «Non conosco altro che Cristo, e Cristo crocifisso».



Nel terzo capitolo della lettera ai Galati si vede perfettamente la sua precedente opinione su Gesù, laddove dice: «Maledetto colui che pende dal legno della croce». Dopo la conversione – attenzione! – continua a condividere questa frase, ma le dà un significato molto più profondo: Cristo è effettivamente maledetto, ma non per Sua colpa, bensì per la salvezza degli uomini.

La domanda centrale è dunque: come è potuto avvenire un cambiamento simile? Anzitutto ce lo dice Paolo stesso. Dopo quel giorno sulla via di Damasco egli non ha più alcun dubbio: Gesù è Figlio di Dio. Nella Seconda Lettera ai Corinzi Paolo descrive l’avvenimento nel quale ha incontrato Cristo e parla della luce divina, cioè egli attribuisce a quell’apparizione le caratteristiche che gli ebrei riservavano alle manifestazioni di Dio (come, per esempio, quella sul Sinai). Nell’avvenimento sulla via di Damasco Paolo ha visto una persona – Gesù Cristo – manifestarsi nella gloria divina. La mia personale ipotesi è che Paolo abbia avuto una visione di Cristo crocifisso. Così è ancora più evidente il contenuto del suo annuncio: quel Gesù crocifisso è contemporaneamente e inscindibilmente il Signore della gloria. E si ricordi che quando Paolo parla di gloria – la doxa – pensa sempre e solo a quella divina.



Era impensabile che un devoto ebreo si inventasse una cosa del genere?



Sì, dev’essere successo qualcosa. Non è un caso che nella esegesi anglofona più avanzata si riconosca che la divinità di Cristo è un’esperienza dei testimoni di Gesù (e, dunque, non qualcosa aggiunto posteriormente). Essi non possedevano le premesse culturali e intellettuali per inventarsi una cosa simile, dunque devono aver fatto esperienza di qualcosa al di fuori di loro.



Si sta concludendo l’anno di celebrazioni per il bimillenario della nascita di san Paolo, quale ritiene sia il suo insegnamento più urgente per noi?



La missione. La passione di Paolo è stata quella di portare il fatto di Cristo in tutto il mondo. Ciò implica due cose. La prima è la certezza su chi sia Cristo; Paolo risponde: la manifestazione definitiva di Dio per tutti. La seconda è l’apertura a tutto il mondo; Paolo conosceva solo un mondo che finiva in Spagna e voleva portare l’annuncio fin là, ma certo non se ne avrebbe a male se noi andassimo in terre di cui egli ignorava l’esistenza.

http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=20159

L’ebreo che spiega Gesù alla Chiesa

12 Maggio 2009
L’ebreo che spiega Gesù alla Chiesa
Il paradosso di Jacob Neusner, il rabbino che prendendo le parti dei farisei ha «aperto gli occhi» a Benedetto XVI sulla grandiosa pretesa di Cristo

di Luigi Amicone
Jacob Neusner è considerato il più grande specialista vivente di letteratura rabbinica antica. Ha scritto un libro su Gesù e ha benedetto il viaggio che il Papa sta compiendo in Terra Santa. Perché? «Perché mi piacciono i cristiani e perché rispetto il cristianesimo». Tutto qui? Sosteneva Kieerkegaard che Gesù di Nazareth e la sua pretesa di aver portato il cielo sulla terra, di essere Dio stesso in terra, «è l’unico caso serio della storia». Perciò «tu devi prendere posizione di fronte a Cristo». Neusner è uno dei pochi contemporanei a farlo davvero. La sua posizione, raggiunta dopo la frequentazione di Gesù nel vangelo di Matteo, è sorprendente? Nient’affatto. Il rabbino non si converte a Cristo, non lo segue e continua a stare “con i farisei”. Perché? Perché Cristo si è detto signore del sabato. Perché ha identificato se stesso con la Torah. Perché Gesù ha chiamato i suoi discepoli in prima persona e si è appellato alla libertà di un “io” invece che al “noi” dell’Eterno Israele. Perché, infine, ha la pretesa “impressionante” e “sbalorditiva”, «egli e i suoi discepoli», di aver «preso il posto dei sacerdoti nel tempio; il luogo santo è cambiato e si identifica con il gruppo formato da Gesù e dai suoi discepoli». E allora dove sta l’originalità dell’ebreo che capisce che «l’alternativa è tra: “Ricordati di santificare il sabato” e “Il Figlio dell’uomo è il signore del sabato”. Non possiamo scegliere entrambi»? Dove sta l’interesse della constatazione che «la Torah sta in un mondo, Cristo in un altro»? Intanto originalità e interesse stanno nella conferma della serietà e gravità del “caso”. Come annota Neusner, non si tratta di parole o di idee. Si tratta di un avvenimento e di una persona. «Comprendo, infatti, che solo Dio può esigere da me quello che sta chiedendo Gesù». «Noi comprendiamo adesso che alla fine c’è proprio la figura di Gesù e non tanto i suoi insegnamenti».
Riepilogando. È giunto alla sua terza edizione italiana Un rabbino parla con Gesù (San Paolo), libro doppiamente straordinario. In primo luogo perché riesce nell’impresa di portare il dialogo ebraico-cristiano oltre le secche della discussione storica e teologica offrendoci una testimonianza limpida e persuasiva di cosa sia un’esperienza viva di ebraismo (mentre, sostiene Neusner, «a parte poche sorgenti di ortodossia l’ebraismo rappresenta oggi in Europa una religione morta»). La seconda ragione di straordinarietà sta nella interpretazione-recensione che dell’approccio a Gesù secondo Neusner ha dato niente meno che il papa Benedetto XVI. Il quale, nel suo Gesù di Nazaret, segnala il volume del rabbino americano così: «Il grande erudito ebreo Jacob Neusner in un importante libro si è, per così dire, inserito tra gli ascoltatori del Discorso della montagna e ha poi cercato di avviare un colloquio con Gesù intitolato A Rabbi Talks with Jesus (Un rabbino parla con Gesù). Questa disputa condotta con rispetto e franchezza tra un ebreo credente e Gesù, il figlio di Abramo, più di altre interpretazioni del Discorso della montagna a me note, mi ha aperto gli occhi sulla grandezza della parola di Gesù e sulla scelta di fronte alla quale ci pone il Vangelo». Non vi sembrano sconcertanti le parole del Santo Padre? «Mi ha aperto gli occhi». Ma la figura del Nazareno non dovrebbe essere la specialità bimillenaria (oltre che la “ragione sociale”) delle Chiese cristiane? Dunque quale sarebbe il segreto che renderebbe così speciale l’approccio di Neusner, come lascia intendere addirittura il Pontefice? Cosa del Gesù visto da un ebreo osservante ha entusiasmato Benedetto XVI tanto da fargli mettere nero su bianco un giudizio così lusinghiero da corrodere implicitamente tanta apologetica cristiana – proprio lui, il Papa-teologo, il professore Ratzinger, l’ex prefetto del Sant’uffizio, il Defensor Fidei, il Vicario di Cristo? Come si spiega tanta accoglienza a una posizione che dichiara «senza scuse, senza inganno, senza infingimento» di voler «riaffermare semplicemente la Torah del Sinai sopra e contro il Gesù di Matteo»? Il segreto sta nel fatto che mentre a tutt’oggi prevale una riduzione del cristianesimo a interpretazione sentimentale o specialistica (almeno così sembra emergere in tanta omiletica chiesastica e nella pubblicistica-biada di massa che ci arride dalle vetrine delle librerie), con l’opera di Neusner torna in auge la “simpatia per l’oggetto” della disputa. Torna una ragione aperta alla considerazione del fenomeno Gesù così come esso si è presentato nella storia e nella testimonianza di chi gli ha voluto bene, non come si immagina che egli avrebbe dovuto essere o essersi presentato per tramite di chi lo ha conosciuto. Perciò il nostro rabbino immagina di mescolarsi tra la folla di discepoli, curiosi, ostili, semplice gente comune riunita alle pendici del monte presso il lago di Tiberiade per ascoltare “il discorso delle Beatitudini”. Egli interloquisce con Gesù seguendo come filo rosso il vangelo di Matteo, «il più “ebraico” dei vangeli», e mettendolo a confronto con la Torah.

Un vero maestro in Israele
Molti sono i punti di contatto ed è impossibile non riconoscere in Gesù un vero ebreo e un maestro in Israele. Il fatto è – pretesa pazzesca e inaccettabile da chi ritiene peraltro che «Mosè ha detto molto di più, stando sulla montagna» – che Egli identifica e riassume l’intera Torah nella sua persona. Insomma, ciò che oggi non è per niente scontato nelle Chiese cristiane, dove il Nazareno rischia di essere tramandato come un mito consolatorio, fermo alla “Parola” di un passato piuttosto esangue e anacronistico, per l’ebreo pio e osservante Jacob Neusner invece è una pretesa viva. Che va presa alla lettera, esattamente per quello che dice di essere. E cioè non una fonte di ispirazione morale, sociale, legislativa. Ma uno che reclama un “tu” e una sequela totalizzante.
Così, la domanda di ieri è la stessa di oggi, di sempre: «E voi, chi dite che io sia?». La domanda posta da Gesù è la stessa che sembra fare da sfondo alle folgoranti riflessioni, ai paragoni e alle conclusioni dell’ininterrotto dialogo che Neusner stabilisce nell’arco della sua narrazione tra il “maestro nazareno”, la Torah, i maestri, i saggi e i profeti dell’“Eterno Israele”. Ristabilendo così – paradossalmente, da parte di un rabbino – il metodo proprio del cristianesimo. Che non è anzitutto quello storico o spiritualistico, ma proprio quello personale di porsi con apertura e immaginazione davanti alla persona di Cristo, alla sua pretesa, alla sua logica, alla sua avventura umana.
http://www.tempi.it/cultura/006682-l-ebreo-che-spiega-ges-alla-chiesa

martedì 12 maggio 2009

Dalla «Lettera a Diogneto» (Capp. 5-6; Funk, pp. 397-401)-I CRISTIANI NEL MONDO

I CRISTIANI NEL MONDO





Dalla «Lettera a Diogneto» (Capp. 5-6; Funk, pp. 397-401)

I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non è stata inventata per riflessione e indagine di uomini amanti delle novità, né essi si appoggiano, come taluni, sopra un sistema filosofico umano.
Abitano in città sia greche che barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, per ammissione di tutti, incredibile. Abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni partita è per essi terra straniera. Come tutti gli altri si sposano e hanno figli, ma non espongono i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il talamo.
Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma, con il loro modo di vivere, sono superiori alle leggi.
Amano tutti e da tutti sono perseguitati. Sono sconosciuti eppure condannati. Sono mandati a morte, ma con questo ricevono la vita. Sono poveri, ma arricchiscono molti. Mancano di ogni cosa, ma trovano tutto in sovrabbondanza. Sono disprezzati, ma nel disprezzo trovano la loro gloria. Sono colpiti nella fama e intanto si rende testimonianza alla loro giustizia.
Sono ingiuriati e benedicono, sono trattati ignominiosamente e ricambiano con l'onore. Pur facendo il bene, sono puniti come malfattori; e quando sono puniti si rallegrano, quasi si desse loro la vita. I giudei fanno loro guerra, come a gente straniera, e i pagani li perseguitano. Ma quanti li odiano non sanno dire il motivo della loro inimicizia.
In una parola i cristiani sono nel mondo quello che è l'anima nel corpo. L'anima si trova in tutte le membra del corpo e anche i cristiani sono sparsi nelle città del mondo. L'anima abita nel corpo, ma non proviene dal corpo. Anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo. L'anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile, anche i cristiani si vedono abitare nel mondo, ma il loro vero culto a Dio rimane invisibile.
La carne, pur non avendo ricevuto ingiustizia alcuna, si accanisce con odio e muove guerra all'anima, perché questa le impedisce di godere dei piaceri sensuali; così anche il mondo odia i cristiani pur non avendo ricevuto ingiuria alcuna, solo perché questi si oppongono al male.
Sebbene ne sia odiata, l'anima ama la carne e le sue membra, così anche i cristiani amano coloro che li odiano. L'anima è rinchiusa nel corpo, ma essa a sua volta sorregge il corpo. Anche i cristiani sono trattenuti nel mondo come in una prigione, ma sono essi che sorreggono il mondo. L'anima immortale abita in una tenda mortale, così anche i cristiani sono come dei pellegrini in viaggio tra cose corruttibili, ma aspettano l'incorruttibilità celeste.
L'anima, maltrattata nei cibi e nelle bevande, diventa migliore. Così anche i cristiani, esposti ai supplizi, crescono di numero ogni giorno. Dio li ha messi in un posto così nobile, che non è loro lecito abbandonare.





http://groups.google.com/group/centro-religione-cristiana?hl=it

giovedì 23 aprile 2009

Un Papiro rivoluzionario: 7Q5




intervista al P. José O'Callaghan, S.J.
di Germán Mckenzie González.


Le scoperte delle undici grotte di Qumran, nei pressi del Mar Morto, in Israele, avvenute dal 1947 al 1956, hanno rappresentato certamente un fatto della più grande importanza per la miglior comprensione della Sacra Scrittura e dell'ambiente storico nel quale si è sviluppata la Chiesa della prima ora. Si tratta della più grande scoperta di manoscritti antichi. Sono i testi della biblioteca della comunità di Qumran, una sorta di monastero in cui, secondo l'opinione dei più eminenti specialisti, una parte della famiglia degli Esseni conduceva una vita dedicata al lavoro e alla preghiera. I suoi abitanti appartenevano a uno dei principali gruppi religiosi in cui si divideva il giudaismo, prima della distruzione del tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C.



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La quasi totalità dei testi e dei frammenti contenuti nelle 11 grotte del complesso di Qumran è stata redatta in ebraico o aramaico, e si tratta di pergamene (pelli di animale opportunamente trattate e utilizzate per scriverci sopra). Solo la grotta 7, scoperta nel 1955, presenta la particolarità di contenere, nella sua totalità, dei papiri, una sorta di carta composta con le fibre di una pianta detta "cyperus papyrus", e, per di più scritti in greco. È precisamente questa grotta che ha richiamato l'attenzione dell'esperto papirologo José O'Callaghan, sacerdote gesuita spagnolo, che iniziò la sua ricerca su di essa quando stava elaborando un catalogo dei papiri contenenti sezioni della cosiddetta versione dei LXX (una traduzione dell' A.T. in greco, eseguita ad Alessandria, da dei giudei, nel III secolo a.C., per l'utilizzo da parte dei correligionari più familiarizzati con il greco che con l'ebraico o l'aramaico.

Appassionato dall'investigazione papirologica, il P. O'Callaghan si diede allo studio approfondito della grotta 7, familiarizzandosi con i frammenti ivi contenuti. Un giorno cominciò a trascorrere il suo tempo libero - come egli stesso dice - «a distrarsi», tentando una identificazione del papiro inventariato con il numero 5, cercando cioè di determinare di quale libro dell'Antico Testamento facesse parte questo frammento di papiro. Esso era datato al più tardi come dell'anno 50 d.C. e misurava 3,9 cm di altezza e 2,7 cm di larghezza. Il punto di partenza per lo studioso fu la combinazione delle lettere "NNES", che apparivano chiaramente leggibili nella quarta riga.

Dopo successivi tentativi falliti nei passi che considerava più probabili, ebbe l'idea di cercare tra i testi del Nuovo Testamento. Inizialmente nessun riscontro, poiché la sua chiave di ricerca si orientava sulle genealogie, ma in seguito arrivò la sorpresa; in un primo momento il risultato lo tenne tra lo stupore e l'incredulità: 7Q5 corrispondeva a Mc 6,52-53. Dopo nuove e più rigorose interpretazioni, nonché reiterate consultazioni con altri esperti, pubblicò, nel 1972, un articolo, in cui spiegava i risultati del suo lavoro. Questo si allargava all'intenzione di trovare altri frammenti del NT, su consiglio di (altri) accademici con i quali si era consultato.

A lato della chiara identificazione di 7Q5, buona parte degli altri tentativi di identificazione dei papiri greci della grotta 7 restavano alquanto insicuri. Fu l'inizio così di una intensa polemica, sorprendente per l'asprezza e l'abbondanza di argomentazioni ad hominem ­ piuttosto che scientifiche ­ utilizzate da alcuni dei suoi oppositori. In seguito vi furono maggiori studi. Oggi, dopo oltre venti anni, le ricerche rigorose di O'Callaghan vengono sempre di più appoggiate da un crescente numero di papirologi di gran fama. Malgrado tutto questo, numerosi biblisti, qumranologi, esperti di critica testuale mantengono un atteggiamento di resistenza. Le conclusioni definitive del P. O'Callaghan non hanno fatto altro che confermare quella identificazione iniziale di 7Q5 come corrispondente a Mc 6,52-53.

"...perchè non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito. Compiuta la traversata, approdarono e presero terra a Genèsaret..."

Dottore in filosofia presso l'Università di Madrid, Dottore in filologia classica presso l'università di Milano, il P. O'Callaghan ha insegnato in importanti centri di studio europei. Egli è professore emerito del Pontificio Istituto Biblico di Roma, dove ha insegnato Papirologia e Paleografia Greca, nonché Critica Testuale. Qui è stato anche decano della Facoltà Biblica. Attualmente è impiegato come direttore del Seminario di Papirologia dell'istituto di Teologia Fondamentale di S. Cugat del Vallès, in Barcellona.

Qual è la ragione di tanto subbuglio? Come è venuta maturandosi l'identificazione di 7Q5 fino alle conclusioni definitive? Quali implicazioni comporta, per la scienza biblica, il ritrovamento di un frammento del testo di S. Marco datato, al più tardi, come del 5O della nostra era?

Questi e altri interrogativi sono stati affrontati nell'intervista che gentilmente il P. O'Callaghan ha concesso a «Vida y Espiritualidad»1 e che noi pubblichiamo grazie alla cortesia di Fabiano Gritti


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Come definirebbe, in sintesi, l'aver identificato il frammento 7Q5 con Mc 6,52-53?

L'apporto dell'identificazione di 7Q5 sta nell'esserci avvicinati al Gesù storico, che questa identificazione permette. Secondo alcuni studiosi si era interrotta la linea di unione con il Cristo storico, perché -secondo questi autori- non sapremmo niente di Lui. Invece risulta che, se adesso siamo in possesso di un papiro dell'anno 50 d.C., del Vangelo di Marco, -come dice molto bene la esimia papirologa Orsolina Montevecchi, che è datato circa vent'anni dopo la morte del Signore-, anche se questo non ci parla di miracoli del Signore, tuttavia abbiamo stabilito il contatto, mediante la testimonianza di un papiro, con il Cristo storico.

Potrebbe raccontarci qualcosa del cammino che ha percorso dal 1972 e che culmina con la conferma scientifica di questa identificazione?

Mi è successo qui quello che mi è accaduto altre volte, ma ancora prima, quando nella mia disciplina scientifica si lavorava senza l'aiuto dell'informatica e le cose erano molto più difficili. A volte, nei momenti di difficoltà scientifica, quando non si vede chiaro l'approccio ad un problema e lo scoraggiamento si affaccia, viene una particolare intuizione che chiarisce la situazione, che illumina il cammino e trova qualcosa di nuovo. Alcuni mi hanno chiesto se si è trattato di una speciale grazia di Dio. Al che rispondo: "Grazia di Dio, sì, perché tutto quello che ho e che faccio è, in fondo, grazia di Dio, però non una ispirazione divina particolare". Onestamente credo di no. Si è trattato di una intuizione scientifica, evidentemente, di cui rendo grazie a Dio.

La prima ricezione del mio articolo apparso nella rivista Biblica: "¿Papiros neotestamentarios en la cueva 7 de Qumrán?" del 1972, fu molto polemica. Allora persone di grande autorità scientifica mi dissero testualmente: «Né Lei né io verremo a capo di una polemica internazionale, perché essa è fortissima. Lei va contro l'opinione internazionale». Opinione internazionale, del resto, che trovava spazio tra la maggior parte degli studiosi della Bibbia nel campo protestante e nel campo cattolico.

Stiamo parlando della prospettiva di R. Bultmann, che stabilisce una separazione tra il Gesù storico, che sarebbe assolutamente inaccessibile, e il Cristo della fede, che corrisponderebbe alla elaborazione della prima comunità cristiana e che è quello che ha tramandato a noi, depositato nel Nuovo Testamento?

Ebbene, sì. E dunque, chiaramente, questo aspetto è fortissimo. In realtà il papiro è minuscolo e potrebbe presentare certamente delle difficoltà. in quel momento non si pretendeva di concludere di vedere completamente tutto chiaro.

All'inizio non risposi agli attacchi di studiosi famosi come -soprattutto- il prof. Kurt Aland, quelli degli specialisti della École Biblique di Gerusalemme, etc. Essi mi attaccavano fortemente, però, più che di argomenti scientifici, si trattava di attacchi personali di grande risonanza internazionale. Io vedevo, sulla base degli argomenti che la scienza papirologica consente, per quello che la conosco, che non toccavano il nocciolo della questione. Erano attacchi di scarso contenuto papirologico. Allora cominciai a rispondere attenendomi rigorosamente agli argomenti e non alle persone, finché non mi stancai di ribattere. Pensavo che perdevo tempo ed energia in un dibattito che, basato su questi termini, non valeva la pena di continuare. Avevo risposto abbastanza nella rivista Studi Papirologici; anche nella rivista Biblica. In seguito la querelle si smorzò perché non ricevetti risposta ai miei articoli chiarificatori. Non pubblicavano niente e si fece silenzio sul tema. Senza interlocutori non potevo rispondere a niente. La questione rimase assopita finché il papirologo anglicano Carsten Peter Thiede, professore tedesco, si presentò nel mio studio, con sua moglie, quando ero decano della Facoltà Biblica del Pontificio Istituto Biblico di Roma, e mi disse che era convinto che gli attacchi che la mia ipotesi aveva ricevuto erano inconsistenti. Egli stava cercando di scrivere un libro sulla mia identificazione. Dopo che ebbe investigato per suo conto, pubblicò un libro in Germania di cui si è fatta, mi pare, la quinta edizione. In castigliano si intitola: ¿El manuscrito más antiguo de los Evangelios? El fragmento de Marcos en Qumrán y los comienzos de la tradición escrita del Nuevo Testamento. L'opera è stata tradotta anche in olandese e in italiano (Il manoscritto più antico dei vangeli? Il frammento di Marco diQumran e gli inizi della tradizione scritta del Nuovo Testamento, (Subsida Biblica 10), Roma: Biblical Insitute Press, 1987: nota redazionale). Inoltre Carsten Peter Thiede ha scritto un altro libro in inglese, tradotto anche in francese (e in Italiano: Qumran e i Vangeli. I manoscritti della grotta 7 e la nascita del Nuovo Testamento, Milano: Massimo, 1996: nota redazionale). Tutta la faccenda, come può vedere, ha acquistato risonanza. Si tratta di uno scienziato di alto livello. Lo conosco e lo rispetto molto, come è naturale. In quel tempo fu lui che riprese la tematica. Essa era come addormentata, non spenta; Thiede non la resuscitò, piuttosto la ha risvegliata.

Quale è stata l'importanza del simposio svoltosi presso l'Università di Eichstätt, in Germania, nell'ottobre del 1991?

È stata grande. Mi invitarono, però non volli assistervi, perché i partecipanti potessero sentirsi liberi di parlare in favore oppure contro. Ciò che feci, fu di inviare una lettera, di cui si diede lettura, ringraziandoli per il loro interessamento e offrendo le mie preghiere perché incontrassero la verità. In quella sede grandi personalità si espressero a favore della identificazione, altre no; però, in generale, la opinione fu favorevole. Mi offrirono i loro lavori. Erano nord-americani, tedeschi, francesi, belgi... nessun italiano e nessun spagnolo. Queste persone hanno potuto agire in un ambiente internazionale altamente scientifico, pubblicando, in seguito, degli atti che, in generale, propendevano in favore della mia posizione. In seguito F. Rohrhirsch pubblicò un libro favorevole alla mia identificazione e contro la presa di posizione di Kurt Aland e la sua scuola, i quali, nella loro analisi informatica di tutti i fattori relativi a 7Q5 hanno sbagliato a programmare il computer; logicamente, l'elaboratore, programmato in modo erroneo, ha dato risultati erronei, non validi.

E allora Lei si accinge ad assumere lo studio di 7Q5 in profondità e si avvia verso l'ultima tappa che culmina con il libro che pubblicherà tra breve...

Con tutti questi precedenti e altri apporti -compresi alcuni che per essere a volte contrari alla mia tesi non lascio di valutare e di ringraziare- con tutto il materiale raccolto dagli studiosi che hanno cercato di stabilire altre identificazioni per 7Q5, sono andato approfondendo la mia indagine. Grazie a un calcolo delle probabilità da me richiesto all'eminente professore Alberto Dou, Dottore in matematica e membro delle reale Accademia delle Scienze di Madrid, risulta chiaro che il frammento del papiro non può corrispondere ad altri testi... Non combacia con nessun altro testo! Questo studio si riporta ampiamente nell'epilogo del libro che sto dando alle stampe: Los testimonios más antiguos del Nuevo Testamento. Papirología neotestamentaria. ((En los origines del cristianismo 7) Cordoba: Ediciones El Almendro, 1995: I testimoni più antichi del Nuovo Testamento. papirologia neotestamentaria; attualmente il libro non è ancora tradotto in italiano; nota redazionale). Qui dichiaro e provo scientificamente, da un punto di vista papirologico, che 7Q5 è Mc 6,52-53. Qui, infine, includo l'apporto dello studio matematico del professor Dou. La questione e definitivamente provata e sicura; cosa che mi anche detto, dal punto di vista delle possibilità matematiche, lo stesso professor Dou.

Parliamo un po' delle diverse obiezioni e problemi posti alla identificazione: secondo alcuni c'è un primo ostacolo ed che lo studio è stato fatto usando come base dlle foto grafie e non il papiro stesso...

In primo luogo le rispondo come papirologo. A un papirologo non sempre è possibile viaggiare fino a San Pietroburgo, a New York o chissà dove per studiare un papiro, perché non possiamo contare sul presupposto di avere sempre l'accesso diretto all'originale. Questo è evidente. Quello che facciamo è, dalla nostra sede, lavorare per mezzo di fotografie, talvolta ad infrarossi. Questo è abituale, nella papirologia. In secondo luogo è assolutamente falso che io non abbia lavorato con i papiri originali. Il P. Martini, oggi Cardinale, che è stato rettore del Pontificio Istituto Biblico quando proposi l'identificazione per la prima volta, appena uscì il primo articolo, nel 1972, mi chiese di stare a lavorare una settimana completa al Museo di Gerusalemme.E la mia visita ai luoghi santi fu, in gran parte la sala dei papiri del suddetto museo. Ebbi sì la consolazione di celebrare la Messa presso il Sepolcro del Signore, a cui mi ero già preparato da tempo, però, per lo più, ciò che feci, fu di verificare le letture su 7Q5, letture che erano ovvie già nella fotografia a raggi infrarossi. E nel medesimo anno pubblicai un ampio articolo nella rivista Biblica, in base alle note prese nel corso dello studio diretto presso il Museo di Gerusalemme. Ed è curioso, perché, come ho detto, io ho visto e ho lavorato una settimana con gli originali, C.P. Thiede è stato 5 volte là, mentre il Prof. Aland, la cui memoria rispetto e a cui riconosco il molto che ha dato nel campo della critica testuale, ha lavorato soltanto con fotografie e non è mai andato a Gerusalemme. È stato paradossale il fatto che abbia attaccato duramente le mie ipotesi dicendo precisamente che la mi identificazione è stata realizzata lavorando soltanto con fotografie!

C'è un altra questione papirologica ed è costituita da tentativi di realizzare altre identificazioni di 7Q5, diverse dalla sua; come quella della professoressa Spottorno, con Zac 7, 4-5? Altri studiosi, come Julio Trebolle, per esempio, in un libro recentemente pubblicato, dicono che sono possibili differenti identificazioni del papiro. Che ne dice, a proposito?

Sono ipotesi completamente sbagliate. Lo dico, come papirologo, con tutta franchezza. Tutto quanto affermano a livello papirologico io lo analizzo in profondità -come ho già detto- nella conclusione del mio libro. Queste alternative che essi propongono, in quanto papirologo, fanno pena a vederle. Sembra che qui vogliano, più che illuminare, disorientare e parlare tanto per parlare. Hanno proposto come identificazione testi che non c'entrano in nessun modo! Ho sempre detto, fin dall'inizio, che se mi provano che questo non è il Vangelo di Marco, io lo accetto di conseguenza. Ma hanno cercato distorcere la realtà... Nel libro che sta per apparire, c'è una sezione chiamata: «Presupposti scientifici per l'identificazione». E sulla base di quanto ivi espongo si vede con chiarezza che, nella proposta delle loro alternative, non si è tenuto conto di quanto, nella metodologia scientifica, è più elementare. E questo lo affermo nella maniera più assoluta.

In concreto, di che cosa stiamo parlando, di lettere che non esistono nel papiro originale?

Quando uno fa una identificazione, se è vera, questa corrisponde a quello che si vede nel papiro, alla disposizione delle lettere e al resto. Se la identificazione non corrisponde a quello che si vede nel papiro, uno, di conseguenza, mette in dubbio e dice: «Questo non è il papiro, è un'altra cosa». Queste interpretazioni alternative, che hanno proposto, fanno pena, sul piano scientifico. Nel caso della professoressa Spottorno, che rispetto molto a livello personale, ella ricostruisce, in base a 7Q5, un passaggio che non è uguale al brano di Zaccaria con il quale pretende di identificarlo, ma sarebbe una specie di parafrasi dello stesso passo; che razza di identificazione è?

In queste pretese identificazioni, si rispetta la "verticalità delle lettere", che si deduce dalla media sticometrica (numero delle lettere per linea) del rotolo al quale il papiro apparteneva?

No, in nessun modo. Né la "verticalità delle lettere", né la lettura. Perché oltre a non corrispondere al papiro, le lettere che propongono non vi si vedono. Non sto parlando solo di lettere complete, ma non si vedono neppure incomplete, e neppure si vedono tratti d penna. In papirologia le lettere complete non presentano nessuna difficoltà: quelle incomplete possono essere di lettura sicura o incerta. Però, se incontriamo in un documento antico, per esempio, nel nostro alfabeto, un triangolo con il vertice in alto, si possono completare i lati fino alla base e si può dire che è una "A". Però, se si incontra un simile triangolo, non si può dire che è una "S". Eppure queste supposte identificazioni alternative presentano cose simili; è incredibile!

Un altra obiezione è che il papiro è troppo piccolo per poterci lavorare sopra seriamente...

Questo fatto potrebbe mettere la pulce nell'orecchio a uno che non sia papirologo, ma a un papirologo questo non suona strano, perché ci sono dei papiri più piccoli, come per esempio quello che corrisponde a Samia, (la cui sigla è P. Oxy. XXXVIII 2831), opera di Menandro, che misura 2.4 per 3.3 cm. Per la sua identificazione il papirologo inglese E.G. Turner modifica il testo e realizza un cambio fonetico che non si incontra da nessuna altra parte. Questa identificazione è stata accettata da tutti. Ci sono altri esempi. Il papiro neotestamentario pubblicato da C.P. Thiede, appartenente alla collezione Bodmer, è molto più piccolo. Inoltre c'è anche il caso del papiro che fu identificato nella gotta 7 di Qumran come corrispondente a un testo dell'Antico Testamento, della lettera di Geremia, in cui si presenta una identificazione testuale che gli identificatori aggiustano come possono, sulla base di una versione latina. Inoltre le uniche parole che si leggono con sicurezza assoluta sono OUN (= dunque, cong. consecutiva) e AUTOUS, (= essi). In tutti questi casi nessuno ha fatto pesare qualche difficoltà perché il papiro è più piccolo di 7Q5.

C'è un'altra questione relativa a 7Q5; è la lettera incompleta che alcuni hanno letto come una «I» e che Lei legge come «N»...

C'è una lettera che io leggo come «N», in relazione alla quale quelli dell' École Biblique di Gerusalemme mi dissero che ciò era -testualmente- «assurdo». Dicevano che era assurdo vedere lì il tratto verticale sinistro di una «N» -il ny maiuscolo in greco è come la N in italiano (or. "in castigliano"). Si tirava in ballo questo finché, al Dipartimento di Investigazione e Scienza Forense della Polizia Nazionale di Israele, e con gli apparati della tecnologia moderna, concretamente con lo stereomicroscopio, videro che nel tratto verticale a cui ci riferiamo, nella parte superiore, discendeva parte del tratto obliquo discendente corrispondente ad una «N». E' dunque scientificamente provato. Ora, la lettera che segue, che più di uno vedono come una eta -che nell'alfabeto maiuscolo greco è fatta come una «H»-, io non la vedo tale. E sebbene un eta in questa posizione combacia perfettamente con la mia identificazione, poiché desidero essere onesto scientificamente, quando il professor A. Dou fece i calcoli delle probabilità che gli richiesi, gli dissi di mettere un punto nella posizione che quella lettera occupava, perché io, semplicemente, non la vedevo.

Il fatto che si sia ricorso alla polizia scientifica israeliana, che non ha nessun interesse nella polemica, garantisce l'imparzialità delle informazioni che sono servite ad identificare la lettera...

Per un certo aspetto sì, però non in quello fondamentale. L'obiettività della identificazione è garantita dal rigore scientifico del lavoro nel suo insieme. Le dirò un'altra cosa, perché possa vedere l'onestà del procedimento: ogni qual volta pubblicavo un articolo, difendendo la mia posizione, ho sempre pubblicato la fotografia a raggi infrarossi. Quelli che attaccarono l'identificazione non hanno mai pubblicato nulla, soltanto parlavano. Qui c'è già una differenza di procedura scientifica. In questo desiderio di onestà, ad un estremo e massimo rigore scientifico, non si è mancato di adottare tutte le possibilità di investigazione, e di presentare il papiro alla polizia israeliana, la stessa che è completamente imparziale nella materia di questa identificazione.

Si è parlato anche del cambio di un delta con un tau che si deve fare per ottenere l'identificazione. È un aspetto che hanno trattato C. Roberts, Pierre Benoit, M.E. Boismard e altri.

Sì. E quando vidi che alcuni assunsero questo come una obiezione, mi recai presso la biblioteca del Pontificio Istituto Biblico, e scrissi una nota che fu pubblicata nella rivista Biblica, circa la frequenza del cambio delta-tau nei papiri biblici. E ripeto quello che ha detto la professoressa Montevecchi, una eminenza in papirologia: obiettare questo cambio delta-tau è quasi ridicolo, a motivo della possibilità e ammissibilità del cambio. E di fatto esistono numerosi casi dello stesso errore, compreso perfino un graffito in greco su pietra, dei tempi di Erode, dove è evidente che avrebbero dovuto badare di più alla scrittura.

Nel campo della critica interna ci sono delle altre osservazioni. Una di esse mette in discussione l'identificazione fatta da Lei perché essa esige l'eliminazione di nove lettere, corrispondenti alla frase EPI TEN GEN, che appare nella variante greca più comune del Vangelo di S. Marco.

Di questo parla anche O. Montevecchi. Io potrei rispondere con le sue parole, che sono molto più autorevoli delle mie e assolutamente imparziali. Se il cambio delta-tau, come ho già spiegato, non ha niente di particolare -e parlo come papirologo-, omissioni analoghe a EPI TEN GEN sono un caso conosciuto e accettato. Lo stesso C. Roberts, quando pubblicò il papiro p52, quello famoso del vangelo di S. Giovanni, realizzò la sua identificazione omettendo alcune lettere; Ed è che nella pericope (Gv 17, 37-38) c'è una ripetizione, nel testo originario di S. Giovanni, che dice: «Io per questo (EIS TOUTO) sono nato e per questo (EIS TOUTO) sono venuto nel mondo» (v. 37). La seconda occorrenza di EIS TOUTO, che è la lettura ordinaria nel testo oggi conservato, per ragioni sticometriche, lo omise lo stesso Roberts, guidato dalla «verticalità delle lettere» del testo nel margine destro del papiro, considerando il suo testo come una variante più breve. Ed è ben conosciuta l'accoglienza entusiasta e la generale accettazione della identificazione di p52, corrispondente all'anno 125. Non voglio parlare di altri diversi papiri biblici la cui identificazione, malgrado presentassero varianti «assurde», è stata accettata da tutti gli specialisti. Mi limito solo a citare un pezzo di papiro (più piccolo di 7Q5), il p73 (= p. Bodmer I). In questo insignificante papiro, tra il fronte e il retro si leggono con sicurezza solo otto lettere. Ebbene, l'identificazione di questo papiro con il testo di Mt 25,43 e 26,2-3, è stata accettata senza nessuna difficoltà.

Non le sembra degno di prendere in considerazione l'argomento del prof. Metzger che cerca di mettere in questione l'identificazione perché, -dice- per realizzarla si rende necessario accettare delle eccezioni in un pezzetto molto piccolo di papiro?

Che eccezioni sono?

Il cambio delta-tau e l'EPI TEN GEN.

Questo che dice il professor Metzger mi sembrava molto opportuno, perché rispetto molto la sua personalità scientifica. Siamo amici. Però l'argomento che porta è scardinare la questione. Può darsi che in un pezzo piccolo di papiro ci siano delle varianti perché cadono proprio lì. Inoltre, in questo caso, queste varianti non hanno corpo e volume sufficiente per far dubitare della identificazione perché non hanno, ognuna di esse, un peso significativo per generare dei dubbi.

Il che equivale a dire, riassumendo, che esistono papiri accettati ai quali si sono concesse non poche eccezioni in più e nessuno si è fatto alcun problema?

Così è. Esistono molti altri papiri. Lo dico sempre e lo ripeto ora: se questo papiro fosse del VII secolo, sarebbe fantastico; però chiaramente è del I secolo e per questo non si accetta. Comprendo queste riserve soltanto per le conseguenze che questa accettazione comporta.

C'è qualcuno che parlava di un Suo intento apologetico...

Se mi dicono questo è per mettermi addosso un marchio d'infamia. Io lavoro sempre con rigore scientifico e ho compiuto altre identificazioni, per esempio una che un gruppo di professori tedeschi di Berlino mi presentarono come un brano di prosa e che io ho identificato come del poeta Teocrito. Ora mi domando: "Che apologetica ho fatto con questa identificazione?" A quel tempo ed ora il mio procedere è scientifico. Nel caso poi di 7Q5 la identificazione compiuta non fu fatta cercandola, ma è successo..., semplicemente. Inoltre, a condurmi ad essa fu la curiosità nel tempo del riposo... «fare i cruciverba in greco», semplicemente.

Proseguendo, parliamo delle conclusioni del calcolo delle probabilità, la prova matematica. Il cambio delta-tau da Lei rimarcato, non interferisce con il risultato?

Infatti io avvertii di questo il professor Dou, ma bisogna supplire all'equivocazione dello scriba. Matematicamente, tuttavia, nella prima ipotesi di lavoro (egli ha lavorato con cinque ipotesi distinte che, nell'insieme, hanno dato un risultato favorevole alla identificazione che io propongo) questo cambio consonantico influiva poco.

E nel caso delloeta che Lei ha detto che non vedeva chiaramente...

In questo caso richiesi al professor Dou di non considerarla e di mettere lì un punto, che denotava una lettera sconosciuta. Il resto delle lettere sicure del papiro si sono considerate come tali. D'altro canto si è utilizzata, come base, la medesima sticometria (lunghezza di ogni riga della colonna del testo) della mia identificazione, cioè con lo stesso numero di spazi o lettere, e con possibilità di variare tra le venti e le ventitré lettere, perché, essendo lettere fatte a mano, non sempre la loro quantità è costante in ogni linea.

La prima ipotesi semplicemente considera il numero delle lettere e la loro ubicazione, senza distinguerne nessuna...

Sì, si tratta di un calcolo puramente matematico, senza identificare nessuna lettera... A farlo, la probabilità che si incontri una sequenza che possa corrispondere a 7Q5 è di 1 contro trentaseimila bilioni. Per farsi un'idea, si può spiegare che quando si tira una moneta in aria la probabilità che venga testa è 1 contro 2. Così, la probabilità in questo caso è di 1 contro 36.000.000.000.000.000 (trentasei milioni di miliardi). Questa cifra si riduce, cioè la probabilità è maggiore, quando ci si riferisce alla congiunzione di lettere propria di un testo espressivo letterario, che è differente dalla ipotesi precedente di un testo matematico inespressivo.

Nel caso di un testo espressivo letterario ci sono più probabilità che nel caso precedente che il frammento 7Q5 coincida con un testo diverso da Marco...

Sì, ma la probabilità in questo caso è di 1 contro novecentomila milioni... cioè non ce ne è praticamente nessuna. Si tratta di una contro 900.000.000.000 possibilità. Questo è sicuro, perché in tutte queste migliaia di milioni, parlando matematicamente, e impossibile e assurdo che si possa incontrare un'altra identificazione, perché questa è unica ed è con Mc 6,52-53. Tanto nel primo come nel secondo caso, il risultato è scientificamente sicuro. Tutti i dettagli di questa come di tutte le altre ipotesi di lavoro dell'analisi del professor Dou saranno riportate nell'appendice della mia prossima opera, come ho già detto.

C'è una terza ipotesi...

Questa si riferisce a una sticometria più ampia, perché nel lavoro con la matematica cerchiamo di esaurire tutte le possibilità di variazione. In questo caso la probabilità di una identificazione di 7Q5 con un testo che non sia di Marco è di 1 contro 430 bilioni. Si tratta di 1 possibilità tra 430.000.000.000.000 di opzioni. nuovamente il risultato è molto chiaro.

Persino un risultato più...

Le analisi del professor Dou lo portano ad affermare che, nel caso si scoprisse nel futuro qualche documento con il quale il frammento 7Q5 potrebbe identificarsi, questo documento e Mc 6, 52-53 sarebbero testi non indipendenti. Cioè, eventualmente si scoprisse un qualunque altro testo suscettibile di supportare una identificazione con 7Q5, questo testo avrà a che vedere con il nostro brano di Marco. Tutto questo verrà spiegato nel libro.

Lei si sente intimamente convinto, come scienziato, che questa sua identificazione è certa...

Ora sì, inizialmente non ero tanto fermamente convinto. Era un'ipotesi molto probabile. Adesso sì, sono sicuro.

Andando oltre il tema della identificazione propriamente tale del testo, circa la datazione del testo...

La datazione la fece Roberts, il grande paleografo di Oxford. Forse adesso stanno facendo maggiori difficoltà rispetto al momento iniziale, però fino ad allora non si presentò nessun problema. Il professor Fitzmyer diceva in un articolo che, poiché non si può cambiare la datazione, non si può accettare la identificazione di 7Q5. ora, perché non si può cambiare la identificazione, cercano di cambiare la datazione.

Ci sarebbe la possibilità di usare il metodo del carbonio 14 per precisare la datazione?

No, è impossibile, perché bisognerebbe bruciare il papiro... In pezzi di papiro più grandi sì, è possibile farlo, ma in questo caso ciò implicherebbe la perdita totale dello stesso.

In relazione al medesimo tema della datazione, ci sono alcuni - e tra questi il già menzionato ricercatore K. Aland- che affermano che il papiro debba essere posteriore all'anno 50.

Il professor Aland non era paleografo; cioè, pur con gran rispetto ai suoi lavori di critica testuale, nel campo della paleografia preferisco altre opinioni.

Inoltre esiste un problema da tirare in ballo e che è il passaggio dal rotolo al codice; potrebbe spiegare qualcosa a proposito?

Nel simposio della Sorbona, a Parigi, svoltosi pochi anni fa, ricordo esattamente che gli specialisti si misero d'accordo e si può dire che è verso l'anno 80 che ebbe luogo il passaggio dal rotolo al codice; non in maniera netta, ma si cambiò poco a poco, finché finalmente si passò al codice, soprattutto per facilitare la diffusione del nuovo testamento. Era più facile inviare libri, quaderni, che rotoli, complicatissimi da maneggiare.

Nel caso del papiro 7Q5 teniamo un pezzetto di rotolo; il che implica che esso sia anteriore all'anno 80 d.C., che fu quando essi cessarono di essere utilizzati...

In realtà anteriori a quando si chiusero le grotte di Qumran, cioè nel 68 d.C.; in base all'archeologia e alla storia, per precisione storica, questo frammento è molto antico.

Tra i metodi paleografici, quali furono utilizzati per datare il papiro prima dell'anno 50 d.C.? Cosa c'entra il cosiddetto Zierstil («stile ornato») con tutto ciò?

Ogni stile paleografico (stile di scrittura) ha una nascita, uno sviluppo, e una morte. È in base a questi stili e ai suoi cicli di vita che si può spere la datazione di un manoscritto. La datazione la fece il prof. Roberts, di Oxford, molto noto, come ho già detto. Un altro professore, un altro molto rinomato in Italia, di cui non faccio il nome perché me lo ha detto confidenzialmente -non sarebbe particolarmente significativo sapere, in questa vicenda, il suo nome- sosteneva: «Al massimo questo papiro è dell'anno 50 d.C.». E chi mi ha detto questo è, secondo me, il miglior paleografo biblico del mondo.

Cioè paleograficamente il papiro 7Q5 ha uno stile che è determinato tra un intervallo di anni e per questo è possibile datarlo...

Sì, questo intervallo di anni va dal 50 a.C. al 50 d.C. Potrebbe darsi che questo stile abbia una ramificazione, però c'è da tenere conto di una cosa: alcuni dei papiri della grotta 7 di Qumran presentano dei tratti che sono molto interessanti, si incontrano tratti paleografici dei papiri di Ercolano, dell'Italia. Allora può darsi che si scrivessero a Roma... Infine c'è una serie di casi molto interessanti, tuttavia enigmatici.

Questo ha a che vedere qualcosa con la iscrizione che si riscontrò nell'anfora della grotta 7, che diceva «Roma»?

Questo lo affermano alcuni. Io non sono un tecnico in questo campo e non mi azzardo a sostenerlo. Persone più accreditate potranno dirlo. Quanto Lei dice lo suggerì un professore del Pontificio Istituto Biblico; ma, per contro, il neutrale specialista di Qumran Yigael Yadin disse di no, che si metteva solo il nome del proprietario o il contenuto, ma non l'origine geografica... Però, nella migliore delle ipotesi, il contenuto era «manoscritti di Roma». Si tratta di qualcosa aperto alla investigazione.

A parlare di 7Q5, davanti a che cosa ci troviamo? Davanti ad un frammento del Vangelo di Marco? Di quale versione? Di una fonte di Marco?

Questo non lo so. Alcuni dicono che è una fonte. Colui che oggi è il Cardinale Martini aveva un'opinione al riguardo e, credo, la pubblicò. Avendo un cambio di sezione (tra i versetti 52 e 53 del capitolo 6 del Vangelo di S. Marco), si tratta di un testo già formato. C'è un paragrafo, un spazio vuoto in bianco, che implica un «punto e a capo». Però, una volta di più, questo esula dalla mia competenza e per questo non esprimo valutazioni. Altri lo diranno.

Ci sono anche altri indizi che permettono di compiere questa identificazione con Marco; per esempio, l'uso reiterato della parola KAI (in italiano «e»), se non mi sbaglio...

Certo, è vero; non c'è un altro autore classico che fa iniziare un paragrafo con KAI, come nel caso di 7Q5. Questo comincia una sezione al v. 53. E se si tiene conto che in Marco più del 90% delle pericopi cominciano con KAI, rivelando un greco poco raffinato -che tuttavia bisogna dire che è proprio del Vangelo di Marco-, gli argomenti i favore della datazione aumentano. La verticalità delle lettere, il dettaglio del paragrafo, il KAI, lo stesso fatto di essere una lectio brevior (una variante più breve dovuta all'omissione di EPI TEN GEN)... tutti questi fatti portano O. Montevecchi ad affermare che se questo non ci fosse, avrebbe dubitato che il papiro fosse antico.

Parliamo un po' delle reazioni, come per esempio quella del professor Ravasi, che, mostrando disinformazione sul tema affermò, rispondendo alla proposta di identificazione di 7Q5 con il menzionato passo di Marco, che si trattava di un papiro con lettere ebraiche. Come è possibile una simile mancanza di obiettività?

Questo, invece di chiederlo a me, bisognerebbe piuttosto chiederlo a Lui

Lei non ha nessuna idea sulla faccenda?

Questa leggerezza è una cosa incredibile... Ravasi, che è una persona molto competente in certe cose, non si è neppure degnato di guardare il papiro! Appare chiaramente il KAI, appare chiaramente il tau, appare chiaramente il gruppo NNES... E lui dice che è ebraico? Eppure sembrerebbe che si sia espresso così. Ci troviamo di fronte ad un pregiudizio di scuola, o, piuttosto, di posizione. Si vede chiaramente... Le personalità eminenti che hanno le loro posizioni scientifiche, come potevano cambiare la loro posizione per la proposta di un giovane sconosciuto nell'ambiente biblico internazionale? Nel campo papirologico io ero conosciuto, ma in campo biblico no. Se non si è papirologi, sinceramente, si vedranno o non si vedranno cose con superficialità...

Che cosa le dice il fatto che le critiche provengono più dagli esegeti che dai papirologi, pur non essendo quello il loro campo?

Quello che dice Herbert Hunger, che è stato direttore della collezione dei papiri della Biblioteca Nazionale dell'Austria, realtà di grandissima importanza per la papirologia, è assai ragionevole: "Io non parlo né come teologo né come biblista, parlo come scienziato e papirologo, e come scienziato dico che O'Callaghan ha ragione". Quanto afferma O. Montevecchi è importate: questo non toglie ne aggiunge nulla, perché anche se questo non fosse un papiro di San Marco, il cristianesimo non perde nulla. Ed ora si deve anche presentare in conto, a coloro che si oppongono alla identificazione che avanzo, che, a fronte dei loro pregiudizi c'è stato un rafforzamento di un più equanime e scientifico apprezzamento delle cose.

Sebbene il suo lavoro su 7Q5 non abbia un intento apologetico, non di meno esso ha delle conseguenze importanti per l'annuncio delle fede nel nostro tempo, soprattutto per quanto ha a che fare con la storicità dei vangeli. Come vede questo aspetto?

Una cosa è che io, come sacerdote, mi rallegri molto, ma è altra cosa che un sacerdote abbai tirato acqua al suo mulino. Quando valutavo globalmente la cosa, allora, oltre ad aver discusso e parlato con rigore scientifico, mi sentivo che come sacerdote ero molto lieto della vicenda, per contro considerando che la mia lotta iniziale fu molto difficile -ho trascurato anche le prime votazioni per proseguire come cattedratico presso il Pontificio Istituto Biblico e mi stavo giocando tutto come scienziato; era molto rischioso per me mettermi nella questione di 7Q5-. Ed è che sono convinto che la ricerca della verità necessariamente conduce a Dio, che è la verità. Ora, come sacerdote, non potrei certo minimizzare la mia aspettativa che l'identificazione di 7Q5 con Marco fosse vera, però mai ho fatto apologetica, perché reputo che lavorare così sia inaccettabile. Tra i risultati finali dell'investigazione, sono contento che questa si sia rivelata vera: non posso negarlo.

Che conseguenze pratiche vede? Crede che si tratti di una porta per cui alcune persone volgano gli occhi alla fede?

Ebbene, questo si vedrà. Io non so quello che farà la gente. Però se si accetta questo, per la stessa solidità scientifica che possiede, papirologica, matematica, credo che potrà aiutare qualcuno a dire di sì. Io ripeto tuttavia mille volte la stessa cosa: questo papiro non ha aumentato minimamente la mia fede, perché la mia fede va oltre tutti i papiri e i codici. Però la fede suppone la razionalità umana; di conseguenza sono contento che la identificazione che ho proposto possa affermarsi con certezza.

Concludendo, dando ora uno sguardo retrospettivo, che lettura fa di questo che ha chiamato una «avventura scientifica»? Come vede le cose alla luce degli anni?

Ebbene, è stato tutto. È stato benedizione, è stata prova, è stato calvario, è stata gloria, sono stati momenti intensi... Però innanzi tutto è stato lo sforzo di servire Dio e la Chiesa, sulla base del mio ministero sacerdotale e dei miei studi scientifici.




1 Da «Vida y Espiritualidad», maggio-agosto 1995, anno 11, N. 31.
Traduzione dallo spagnolo a cura della redazione di San Lorenzo




http://www.nostreradici.it/un_papiro_rivoluzionario.htm